Il cappello dell'investitore nell'economia globalizzata

Avendo iniziato ad utilizzare il mio primo telefono mobile in prossimità dell'esame di Stato al liceo, avendo accesso a internet a partire dagli anni dell'Università e con la fortuna di aver potuto studiare ancora, frequentando la facoltà di Economia, affido a questa comunità di professionisti la mia modesta memoria storica di quanto accaduto e cambiato e di dove credo siamo arrivati ora.

La globalizzazione in se stessa rappresenta un concetto giusto, quando un'azienda può avvantaggiarsi di produrre a costi minori, di manodopera, di Sistema-Paese, di accesso alle materie prime, di realizzazione di immobilizzazioni materiali e strumentali e con il fine di dare benefici economici al suo bilancio e ai propri clienti, garantendo un prezzo minore o migliore qualità.

Se non un miglior rapporto qualità prezzo del prodotto finale, probabilmente aumentando vendite e profitti.

Ma negli ultimi anni la contestazione a questo sistema è partita spesso anche dai più autorevoli economisti:

se tale processo su scala mondiale ha generato per la maggior parte un libero accesso ai clienti a tutto quanto possibile, in realtà il prezzo è stato che gli extra profitti delle più grandi imprese non hanno dato un reale vantaggio alla clientela né come qualità né come prezzo.

La prima è scaduta, facciamo l'esempio rispetto a grandi firme artigianali poi divenute società enormi.

Il secondo in molti casi non si è nemmeno ridotto, a causa di cartelli e oligopoli nonché per la maggiorazione del mark-up applicato.

Da questo punto di vista una grande occasione, in tempi dove solo da poco si è innescato un meccanismo inflattivo, è diventato un altrettanto grande fallimento.

Gli economisti hanno duramente criticato la totale assenza del principio fondante della globalizzazione: la sua "democraticità" economica .

Lo stesso si è visto con l'occasione delle grandi privatizzazioni in Italia, un'opportunità come concetto intrinseco fondante per la riduzione del debito pubblico, per le opportunità per i piccoli investitori, per una migliore efficienza delle aziende di Stato. Orbene, molte non solo sono passate di mano nel controllo come caramelle, ma sono state in realtà industrialmente smantellate e funzionano molto peggio di quando davano lavoro a migliaia di persone e servizi a milioni di clienti.

Diventate spesso c.d. "penny stocks" sul mercato azionario.

Ciò che accomuna globalizzazione realizzata male e privatizzazioni fallimentari è soprattutto il cappello dell'investitore privato, il quale può premiarsi solo con la speculazione, sperando almeno di affidarsi ad un buon fondo di investimento ma non ha potuto beneficiare appieno delle opportunità prospettategli.

Un altro grave e spesso dirompente effetto delle considerazioni precedenti è sotto gli occhi di tutti:

l'aumento anziché la diminuzione delle diverse possibilità di investimento e di rendimento attesi tra chi possiede capitali enormi, in pochi, e chi può investire i risparmi del proprio reddito da lavoro, la stragrande maggioranza delle persone al mondo.  

Questo e non altro dovrebbe fare riflettere con azioni consequenziali ma coerenti chi presiede ministeri economici, banche centrali, gruppi di interesse e di direzione negli Stati e nelle organizzazioni che li riuniscono.

 In modo il più possibile sinergico per la solita causa da manuale che non potrà mai cambiare perché implicita nella storia dell'economia non solo moderna, le risorse scarse. Come principio di base da cui dovrebbero derivare le politiche economiche. Se c'è una qualche volontà di invertire una rotta che ha cancellato il risparmio e la fiducia della c.d. middle class. Cambiare per fare e stare meglio, tendenzialmente tutti.

È un ottimistico, spero realistico, spero realizzabile auspicio.